mercoledì 20 aprile 2011

SE L'ARCA DELL'ALLEANZA FOSSE IL GRAAL. LA STORIA DI RON WYATT

di Enrica Perucchietti

La “chiamata”
Poche persone hanno suscitato reazioni cosi controverse nel mondo accademico e nell’opinione pubblica come Ron Wyatt. Archeologo dilettante e autodidatta, Wyatt ha dedicato la sua vita alla ricerca delle massime reliquie del mondo ebraico. Gli scavi che lo hanno reso famoso sono stati quelli sul Monte Ararat dove avrebbe rinvenuto i reperti dell’Arca di Noè.
Sostenuto da una fede incrollabile in Dio ha indirizzato le sue ricerche nella direzione che “segnali” da lui ritenuti soprannaturali gli hanno indicato. Non si è fermato di fronte a nulla, neppure davanti alle avversità o al biasimo dei colleghi accademici. L’unica cosa che l’ha fermato è stata la malattia.
Morto di cancro alle ossa nel 2000, fu davvero un personaggio singolare. Infermiere anestesista di Nashville, a un certo punto della sua vita dichiarò di essere stato “chiamato” da un’entità angelica a scoprire alcuni dei misteri dell’Antico Testamento. Sarebbe stata la prima di diverse “visioni” o miracoli che avrebbero costellato la sua esistenza. Semplicemente egli si sentiva “chiamato” a intraprendere una missione, solo indirettamente religiosa. Avrebbe dovuto riportare alla luce i misteri della religione ebraica.
Nelle sue ricerche arrivò a ad affermare di aver identificato il luogo in cui sorsero Sodoma e Gomorra, il punto in cui Mosè ricevette le tavole della Legge sul Sinai, il punto in cui gli ebrei avrebbero oltrepassato il Mar Rosso, il posto esatto della crocifissione, la tomba di Cristo, i dodici altari costruiti da Mosè, la tomba di Abramo, l’Arca di Noè e ovviamente il luogo dove venne nascosta l’Arca dell’Alleanza.
Sicuramente un po’ troppi reperti per essere stati rinvenuti dalla stessa persona nell’arco di una sola vita…
Il suo operato fu discusso e screditato a priori dall’archeologia ufficiale in quanto si trattava di un dilettante autodidatta. Il sapere accademico può essere davvero tremendo con gli “eretici” che arrivano ad abbracciare dottrine alternative bollate come fantastiche, figurarsi un ex infermiere che un bel giorno aveva deciso di calarsi nei panni di Indiana Jones. Allo stesso modo le sue dichiarazioni furono accolte con scetticismo.
Nonostante abbia avuto contro tutto il mondo scientifico, è passato alla storia come uno dei maggiori scopritori di reperti antichi. Molti hanno pensato alla sua mala fede. Non lo ha aiutato avere una moltitudine di seguaci tra gli aderenti di numerose sette pseudo cristiane che allignano negli Stati Uniti.
Ho avuto modo di lavorare con persone fidate che l’hanno conosciuto quando era ancora in vita e che hanno continuato a sentire via mail la moglie e che mi hanno assicurato – lontano da orecchie indiscrete - che magari poteva essere una persona naif, sicuramente originale, che si sentiva chiamata a compiere una missione, ma in buona fede. Non potrei però giurare che queste stesse dichiarazioni private potrebbero essere confermate pubblicamente. A uno studioso “conviene” sempre spalleggiare i colleghi per non finire anch’esso deriso dai più. Sarebbe la sua fine accademica.
Poi esiste una classe limitata di soggetti che antepone il bene comune, il sapere, la verità e dunque il progresso dell’umanità, al plauso dell’ortodossia scientifica, a costo di finire deriso, bollato come “eretico” o come un venditore di miracoli.
Ron Wyatt era uno di questi.

Alla ricerca dell’Arca: la tomba di Gordon
La teoria di Wyatt sull’Arca dell’Alleanza partiva da premesse indubbiamente logiche. L’ultima citazione che ci parla dell’Arca nella Bibbia è quella di Cronache 35,3. Dopo questo passo, abbiamo il Secondo Libro dei Maccabei, che ci racconta come Geremia nascose l’arca: “Il profeta, avvertito da un oracolo, ordinò che la tenda e l’arca lo seguissero, mentre egli si recava al monte sul quale Mosè era salito per contemplare l’eredità di Dio”. Qui ovviamente il testo fa riferimento al Monte Nebo in Giordania, come citato in Deuteronomio 34,1: “Giunto là Geremia trovò un abitacolo a forma di antro; vi introdusse la tenda, l’arca e l’altare dei profumi e ne ostruì l’accesso. Alcuni di quelli che l’avevano seguito, s’avvicinarono per segnare la via; ma non riuscirono a trovarla. Quando Geremia lo seppe, rimproverandogli disse loro: ‘Il luogo resterà ignoto sino a quando Dio avrà radunato la comunità e gli userà misericordia’”. Questo passo di Maccabei sostiene dunque che Geremia salì sul Monte da cui Mosè vide l’eredità del Signore e trovò una grotta nascosta. Questo però non sta a significare necessariamente che la grotta fosse sul monte Nebo, ma semplicemente che dal Nebo si poteva vedere la Grotta dove Geremia nascose la reliquia.
E’ un’interpretazione che ha la sua validità e che forse in futuro potrebbe anche trovare conferma, se solo l’archeologia ortodossa non si facesse inutilmente beffa dei dilettanti come Wyatt. Sono stati infatti molti coloro che hanno accettato questa teoria anche perché sembra più facile cercare una grotta visibile dal Nebo che mettersi a cercare un antro su quella montagna.
Ovviamente Wyatt prese in considerazione il fatto che l’Arca potesse essere stata nascosta prima dell’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a. C., dato che non risulta che essa sia stata trafugata e portata a Babilonia.
Nelle sue ricerche del luogo Wyatt seguì le indicazioni del Generale Gordon che nel 1882, di ritorno dalla Campagna Cinese, aveva scoperto il sito di una tomba che credeva potesse essere il sepolcro di Cristo. Dalla scoperta di Gordon Wyatt arrivò a identificare la collina adiacente alla tomba come quella del Golgota, proprio come ipotizzato dal Generale.
I padroni del terreno, un arabo e un europeo diedero a Wyatt il permesso di scavare. Il fatto avveniva nel 1979.
Su quel sito, in breve tempo, Wyatt dichiarò di aver trovato una tomba. Gli sembrò addirittura che potesse corrispondere alla descrizione del sepolcro di Cristo, in quanto scavata in una roccia, in un giardino nelle vicinanze della collina. In prossimità del sepolcro, trovò una pietra che copriva un buco squadrato. Vicino a quello ne trovò altri simili che gli parvero scavi fatti per infilarvi le basi delle croci romane, come quelle usate per la Crocifissione. Ritenne dunque di aver individuato i fori delle tre croci della Passione di Gesù.
Un radar che venne utilizzato per analizzare il sottosuolo, gli rivelò la presenza di una vasta grotta sotterranea. Trovò anche una grande pietra circolare, molto pesante, che ritenne potesse essere quella che era stata usata per chiudere il sepolcro. Non cercò di estrarla perché era sepolta in profondità, ma dai rilevamenti sembrava coincidere con le dimensioni dell’apertura della tomba. La pietra non poteva essere rotolata a destra a causa di un’altra pietra che era stata intagliata nella fossa, presumibilmente per arrestarne il movimento.
Riscontrò anche una spaccatura della roccia in prossimità del foro della croce più elevato e concluse che potesse essere stato causato dal terremoto descritto da Matteo 27, 51 quando Cristo morì.
Fra le macerie furono inoltre trovate delle monete, nessuna delle quali risalenti a un periodo posteriore al 130 d. C.

La visione
Dopo circa due anni di ricerche, Wyatt non aveva però ancora trovato tracce dell’Arca. Neppure l’entrata della grotta. Il lavoro quotidiano era estenuante e gli uomini iniziavano a perdere la speranza di venire a capo della missione. Wyatt iniziò ovviamente a essere preoccupato per i permessi e per lo scavo.
Ma ancora una volta fu un intervento esterno, che egli giudicò sovrannaturale, a incoraggiarlo a continuare nelle ricerche.
Un giorno come un altro, Wyatt stava scavando alla base del solco, quando alzò lo sguardo e vide sopra di lui un uomo molto alto che vestiva i classici abiti degli arabi. "Dio ti benedica Ron, per ciò che stai facendo", gli disse l’uomo. "Chi sei? come fai a sapere che cosa sto facendo?", gli chiese meravigliato Wyatt. "Io so tutto", rispose l’arabo. "Vivi qui vicino?", lo incalzò Wyatt. "No" rispose l’uomo. "Come fai a sapere il mio nome? Da dove vieni?", continuò a interrogarlo Wyatt. "Vengo dal Sud Africa e sto andando alla Nuova Gerusalemme, Dio ti benedica" si limitò a concludere lo sconosciuto. Vedendolo andar via Ron balzò su dallo scavo. Raggiungendo la cima del fosso chiese agli altri 2 compagni che stavano scavando in superficie che strada avesse preso l'uomo, ma loro risposero che non avevano visto nessuno nei paraggi. Fu allora che Ron capì di aver conversato con un “angelo”, che gli era stato mandato per incoraggiarlo a proseguire gli scavi.
Con ritrovato entusiasmo continuò la missione che di cui si sentiva incaricato di svolgere.

L’entrata nella grotta
Così facendo trovò una grotta.
Mandò un bambino – il figlio del proprietario arabo del terreno - per lo stretto cunicolo ma quando questi tornò indietro non osò riferirgli che cosa aveva visto. Era pallido e spaventato. Così dovettero allargare il cunicolo in modo che lo stesso Wyatt potesse entrare.
Erano le due del pomeriggio del 6 gennaio 1982. Erano passati quasi quattro anni dall’inizio delle ricerche, tre dagli scavi.
Quando finalmente Ron riuscì ad accedere alla cripta, vide molti cimeli, che ritenne essere appartenuti al Tempio di Salomone. I cimeli erano coperti da pelli. Tra questi la Tavola per la presentazione del pane, il candelabro a sette braccia e una spada gigantesca che pensò potesse essere addirittura quella di Golia!
In un angolo c’era una nicchia in cui vide una cassa d’oro, sul coperchio due cherubini che la proteggevano. Fu certo, in quel momento di essere in presenza dell’Arca. Dall’emozione ebbe un sussulto e perse conoscenza. L’aria rarefatta, la stanchezza, lo shock per essersi trovato dinanzi al reperto più importante della storia ebraica ne causarono lo svenimento.
Rinvenne 45 minuti dopo.
In tutto rimase nella grotta per circa un’ora. Quando uscì raccontò quanto aveva visto e informò le autorità dell’incredibile scoperta.
La notizia ovviamente trapelò in fretta. Avvertito il Direttore del Museo di Antichità, questo accorse sul luogo del ritrovamento, ma urtò la schiena, cadde e fu ricoverato in ospedale per due settimane. Sembrava che una forza potente impedisse ad altri di penetrare nella grotta. Una forza sovrannaturale come quella che causò morti e sciagure al ritrovamento della tomba di Tutankhamon da parte di Carter e Carnavon. La storia della “maledizione” del Faraone è nota. Meno nota la considerazione che certi luoghi “sacri” non possono essere profanati, le “divinità” che vi dimorano – per quanto “antiche” - non gradiscono l’accesso sconsiderato da parte dei profani…

Una nube dorata avvolge l’Arca

Avvisate le autorità, in vista delle implicazioni politiche che la scoperta dell’Arca avrebbe potuto avere, un funzionario avrebbe cercato di proibire la continuazione dei lavori che in effetti vennero presto interdetti per evitare disordini data l’affluenza di curiosi sul luogo dello scavo. La scoperta dell’Arca avrebbe infatti indotto i fedeli a voler ricostruire il terzo Tempio a costo di distruggere il Duomo della Rocca arabo che sorge sul luogo su cui si crede che Abramo fosse stato sul punto di sacrificare Isacco. Ciò avrebbe significato un conflitto tra Israele e l’intero mondo islamico di portata inaudita.
Nel frattempo quel funzionario e un altro curioso che aveva intenzione di rivelare per primo la notizia della scoperta ai giornalisti vennero colti da un malore e trovati misteriosamente morti.
Wyatt scattò diverse fotografie con diverse apparecchiature ma tutti gli scatti dell’arca risultarono offuscati da una misteriosa nube dorata mentre il resto della grotta era ben visibile. Era come se l’Arca volesse impedire al mondo di essere vista. Si utilizzarono diverse apparecchiature, persino una telecamera, ma l’Arca non rimaneva impressa su pellicola.
Il parlamento israeliano costrinse in ogni caso Ron a sigillare l’apertura della grotta e a confonderne l’accesso con arbusti e pietre.

Il sangue sull’Arca

Appena uscito dalla grotta, Wyatt raccontò ai colleghi che nella fenditura sul coperchio dell’Arca aveva visto e toccato una strana sostanza scura che aveva prelevato per farla analizzare.
Si chiedeva perché mai Dio avesse potuto permettere a una sostanza di colare su un oggetto tanto sacro come l’Arca. I campioni analizzati confermarono i dubbi di Wyatt.
Quella sostanza era sangue.
Secondo l’analisi un sangue con una stranissima peculiarità. Invece di 46 cromosomi nel aveva solo 24 di cui 22 autosomi e un cromosoma x e un cromosoma y. Quindi, secondo Wyatt, doveva essere per forza essere sangue di un uomo che non aveva avuto padre umano. Ritenne così che si trattasse del sangue di Gesù Cristo. Che per un vero e proprio miracolo era colato dalla croce sull’Arca.
Ricapitolando.
L’arca si trovava nascosta in una grotta proprio sotto il Golgota in prossimità della tomba dove sarebbe stato sepolto il corpo di Gesù. Al momento della morte di Cristo la terra avrebbe tremato squarciandosi. In questo modo il sangue sarebbe potuto colare dalla ferita del costato, prodotta dalla Lancia di Longino, prima lungo tutta la lunghezza del legno della croce, poi attraverso la fenditura della roccia nella terra fino a depositarsi sull’Arca.
Ora, nessuno ha sottolineato l’importanza simbolica di questo ritrovamento. La scoperta di Wyatt è rimasta inascoltata.
Se effettivamente il sangue di Cristo fosse colato sull’Arca dell’Alleanza ciò andrebbe interpretato come un vero e proprio miracolo: il sangue di Cristo rappresenta il frutto della Nuova Alleanza tra Dio e gli uomini, Alleanza che si ottiene proprio tramite il sacrificio di Gesù. Il sangue che cola sull’Arca – che lo ricordiamo è il simbolo della Vecchia Alleanza – avrebbe segnato il passaggio supremo dalla Vecchia alla Nuova Alleanza, proprio attraverso il sangue che sarebbe poi stato raccolto da Giuseppe d’Arimatea nella coppa che noi tutti conosciamo come Santo Graal.
In realtà, avremmo già una prefigurazione della coppa: è l’Arca stessa che si rivela essere un contenitore. Così il sacrificio di sangue di Gesù sarebbe stato il perfetto sacrificio dell’Agnello di Dio effettuato nel Tempio, ovvero sopra l’Arca dell’Alleanza - secondo i dettami della legge ebraica – contenuta sotto i piedi della Croce. Tutto ciò a insaputa dei romani che non potevano sapere che sopra il luogo della Crocifissione sorgesse la grotta dove Geremia aveva nascosto l’Arca.
Il sangue di nessun animale offerto in sacrificio a Dio poteva infatti lavare via le colpe dei fedeli: era necessario il sangue del Figlio di Dio che prendesse su di sé i peccati dell’umanità e li mondasse attraverso il suo omicidio cruento, come scritto in Ebrei 9: 12, “Tu non hai voluto ne' sacrificio ne' offerta, ma mi hai preparato un corpo, non hai gradito ne' olocausti ne' sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco Io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”.
Non solo.
Nel Vecchio Testamento l’Arca custodisce le Tavole della Legge, e proprio il significato supremo della teologia ebraica si esprime nella Legge che Dio dona a Mosè. Supponendo ovviamente che l’Arca sia stata nascosta sotto il luogo della crocifissione di Gesù, il sangue colando sull’arca avrebbe reso l’Arca stessa – contenitore delle Tavole della Legge - un Graal. Un contenitore del sangue simbolo del sacrificio del Figlio di Dio.
Tra l’altro alcuni teologi medioevali assimilavano il Cuore di Cristo all’Arca dell’Alleanza, mentre secondo alcune tradizioni l’Arca avrebbe contenuto al suo interno il Graal che il terzogenito di Adamo, Seth, era riuscito a ritornare in possesso per tramandarlo di padre in figlio in un luogo sicuro.
Dove, forse, riposa ancora. Grazie ai Maestri della Tradizione.

martedì 12 aprile 2011

IL MITO DEL GRAAL TRA SACRIFICIO E NOZZE ALCHEMICHE

di Enrica Perucchietti


Da secoli il mito del Graal evoca un incredibile interesse. Mai un oggetto sacro è stato così cercato, cantato, interpretato: senza in realtà sapere bene di che cosa si tratti al di là della leggenda. Ma il suo fascino deriva proprio da qui: dal mistero in cui è avvolto. Dalle allusioni che il suo simbolismo evoca senza mai rivelarsi completamente. Il Graal è vicino ma al contempo lontano, inafferrabile.
Mai un tema come quello del Graal ha stimolato tanto l’intelletto di filosofi, storici e archeologi e la fantasia di poeti, scrittori e registi. Ma come per altri enigmi altrettanto famosi il destino ha voluto che esso fosse conosciuto quasi esclusivamente per la sua codificazione cristiana come calice dell’Ultima Cena e come coppa che raccolse il sangue del Cristo in croce. L’età contemporanea ha ereditato la funzione di cantore del mito dai cicli cavallereschi e ancor prima dalle saghe celtiche, tramandando la leggenda al grande pubblico attraverso le immagini di un film di Steven Spielberg, Indiana Jones e l’Ultima crociata. Tutto ciò sebbene l’introduttore letterario dell’argomento, Chretien de Troyes, non ci abbia tramandato che cosa realmente contenesse la misteriosa coppa. Da qua il moltiplicarsi di interpretazioni più o meno attendibili: denominatore comune la tradizione cristiana.
Il simbolo del Graal affonda invece le radici nella tradizione primordiale dove è presente e da dove poi si è diffuso nelle varie tradizioni locali come coppa, libro, pietra.

Il simbolo dietro il Graal
Ogni vero simbolo reca infatti in sé molteplici significati che non si possono ridurre a un’unica e univoca interpretazione, e questo fin dalla loro origine, in virtù della “legge di corrispondenza” che lega tutti i mondi o piani di esistenza fra loro.
E il Graal deve essere letto ancora oggi come un simbolo, non come un oggetto meramente fisico: solo in quest’ottica si può comprendere la sua portata evocatrice, salvaguardando il simbolo dal pericolo della degradazione. Ciò non significa però che il simbolo sia soggettivo in base alla molteplicità di significati a cui allude. Il simbolo non è relativo né tantomeno soggettivo. Il simbolo è vivo anche quando sembra ormai appartenere a una cultura remota, dimenticata: esso parla, allude a. Ma ha determinati e specifici significati. Lo scopo del ricercatore o dell’eroe è proprio quello di far parlare il simbolo, di ascoltarlo.
Lo spirito di una determinata cultura quando non riesce più a riconoscere il significato metafisico di un archetipo subisce un’involuzione interpretativa, per cui il simbolo decade e viene interpretato in base a significati sempre più grossolani e deteriori. Questo fenomeno viene riscontrato soprattutto nell’epoca contemporanea e l’eco suscitata dal romanzo di Dan Brown lo rappresenta a pieno: con Brown il Graal perde il suo potere evocativo, il suo infinito rimandare a significati metafisici, decadendo su un piano puramente e unicamente fisico. Il Graal diventa così la “progenie messianica”, il simbolo della discendenza fisica di Gesù. Non è più un simbolo ma anche un oggetto: esso diviene unicamente un’indicazione, la stirpe regale di Gesù.
In questo senso anche una ipotetico matrimonio tra Gesù e la Maddalena, immagine fisica dell’unione tra il Cristo e la Sophia, perde quel significato di nozze mistiche che dalla Tradizione Primordiale si era tramandato fino a noi.
Quello che ancora per gli esoteristi del Novecento era da considerarsi come un matrimonio occulto – ovvero l’assorbimento del principio femminile della Sposa in quello maschile dell’Iniziato - si perde nella ricerca di una linea di discendenza diretta di Gesù che ritroviamo romanzato nel Codice Da Vinci.
Millenni di tradizione spazzati via dal clamore di un romanzo.

Androginia e matrimonio occulto
La figura dell’androgino aveva già subito una fase di decadimento, come aveva evidenziato il massimo storico delle religioni Mircea Eliade nel suo Mefistofele e l’Androgine, mostrando come il Decandentismo avesse scordato gli insegnamenti della filosofia orientale; così per i rappresentanti di questa corrente l’androgino fu concepito solamente “come un ermafrodito nel quale i due sessi coesistono sia dal punto di vista anatomico che fisiologico”. Se nel Romanticismo tedesco, invece, l’androgino divenne sinonimo di “modello dell’uomo perfetto del futuro”, solo con le opere del romanziere austriaco Gustav Meyrink – noto come autore del Golem e del Volto Verde - si poté assistere a un ritorno all’insegnamento della sapienza tradizionale relativa al tema del matrimonio occulto. Solo nel solco di questa via di realizzazione spirituale può essere intesa l’unione di Gesù con la Maddalena, riprendendo l’invito del Cristo contenuto nel Vangelo di Tommaso: “Ecco, io la [Maddalena] trarrò a me in modo da fare anche di lei un maschio, affinché essa possa diventare uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni donna che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli”.
Dunque non soltanto un annullamento del principio femminile sulla base del mito platonico della caduta nella materia dell’anima divenuta femminile per desiderio passionale, ma un congiungimento dei due principi: “un uomo da solo non può raggiungere questo traguardo [perseguire l’immortalità o perfezione spirituale], ha bisogno di una compagna. Solamente le forze congiunte dell’uomo e della donna rendono possibile l’impresa. Proprio qui sta il senso più profondo del matrimonio, quel senso che l’umanità ha smarrito da millenni”, ricorda il cabalista ebreo Ismael Sephardi nel Volto Verde di Meyrink, illustrando la Via della Vita che conduce alla forma superiore di esistenza dei “viventi”.
L’adepto da solo non è nulla e non può giungere con le sue sole forze al Risveglio. Solo la donna è colei che è in grado di recare aiuto all’uomo. Il compito dell’iniziato non è di sfuggire alla donna, ma di assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile. Come ha spiegato infatti Julius Evola in un articolo del 1972, l’idea base è che “l’istinto sessuale […] è la radice della morte”, ma che non bisogna sforzarsi invano di estirparlo come fanno gli asceti; essi “vogliono conquistarsi quella freddezza magica, senza la quale non si può andare al di là della condizione umana, e fuggono perciò la donna. Eppure solo la donna è colei che è in grado di recare loro aiuto”. Il compito dell’uomo non è quindi sfuggire la donna, ma assorbirne il principio femminile, in terra disgiunto da quello maschile, “deve entrare in quest’ultimo e fondersi in uno; solo allora si placheranno tutti gli struggimenti della carne”; solo con questa unione occulta, “che non è priva di pericoli”, si compieranno le nozze alchemiche e si realizzerà quella “freddezza magica che spezza le leggi della terra […] dalla quale sgorga, come dal Nulla, tutto ciò che è in grado di creare il potere dello spirito”.
Gli insegnamenti gnostico-esoterici all’origine delle opere di Meyrink si propongono il ritorno all’unità originaria. La ricercatrice Alessandra Pepe ha interpretato in chiave junghiana il mito dell’androgino come il tentativo di “realizzare la totalità conscia e inconscia della psiche attraverso l’integrazione del proprio Sé”, illustrando, quindi, il tema dell’androginia, consistente nella “conquista del proprio istinto sessuale […] tramite l’unione con il principio femminile presente nell’uomo”, come rivisitazione simbolica del junghiano processo d’individuazione. Così le donne dei romanzi di Meyrink sarebbero personificazioni dell’elemento femminile che l’uomo deve integrare per conseguire l’unità. In questo senso Meyrink, prima ancora di Jung avrebbe compreso il significato simbolico delle “nozze alchemiche”, significato che si cela nelle leggende che ci tramandano un legame nuziale tra Cristo e la Maddalena.

La storicità del Codice da Vinci
In un campo come l’esoterismo che bandisce l’oggettività quantificabile della scienza empirica, una cosa certa è la mancanza assoluta di prove sia storiche sia letterarie riguardanti un fantomatico matrimonio tra Gesù e la Maddalena. Ciò non esclude la possibilità, ma elude il polverone che un romanzo, e si badi bene, soltanto un romanzo e non un saggio, ha sollevato. Si è dimenticato troppo presto che l’astuta pubblicazione di Dan Brown è soltanto un’opera di fantasia, per quanto si riferisca in modo fin troppo evidente a opere saggistiche quali Il Santo Graal di Baigent, Lincoln e Leigh e L’eredità messianica di Sir Gardner.
Una critica del romanzo in questione dovrebbe pertanto spostarsi alle opere che lo hanno ispirato: Dan Brown gioca infatti tra realtà e fantasia come si conviene a un romanziere e i molti dati errati che sono stati inseriti tra le pagine del Codice sono stati accolti per veri e possono fuorviare il lettore meno esperto, ma sono solo il frutto di un’elaborazione fantastica

Le origini del Codice
Ritornando alle tesi che cita implicitamente e che, ricordiamo, gli sono costate un’accusa per plagio, Brown ha dato vita a quello che è stato definito un romanzo sul mistero di Rennes Le Chateau senza Rennes Le Chateau.
Per Lincoln e compagni, infatti, l’abate Sauniere avrebbe trovato il sepolcro di Maria Maddalena con documenti che testimonierebbero la sacra discendenza di Gesù. Ma Brown non nomina mai la piccola località francese anche se il curatore del Louvre trovato morto all’inizio del romanzo si chiama proprio Sauniere…
Non è neppure un’intuizione di Dan Brown l’interpretazione del Graal con coppa-utero, e neppure l’etimologia Sang Real connessa con il sangue reale del Cristo.
Nell’esoterismo classico si ritrova la concezione di San Real come il cuore divino di Cristo, centro dell’essere divino e umano, come vaso “in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue”, citando Renè Guènon. Ma in questo senso nasce spontaneo piuttosto il parallelo con l’athanor ermetico: interpretazioni che Brown non prende minimante in considerazione, fermandosi al piano puramente fisico del rapporto tra il Cristo e la Maddalena.
Come prove a sostegno della loro presunta relazione carnale Brown cita solo due debolissimi elementi: che ai tempi di Gesù il celibato era condannato, e un verso del Vangelo apocrifo di Filippo dove si parlerebbe di un presunto bacio sulle labbra. Riguardo al primo punto il celibato non era necessariamente motivo di scandalo in quanto molti predicatori del tempo facevano voto di castità e in definitiva non prova nulla. Sul presunto bacio in bocca, invece, il Vangelo di Filippo non riporta con chiarezza nulla del genere: si parla di “bacio” ma il testo è incompleto e si è soltanto ipotizzato che si potesse tradurre “sulla bocca”. In ogni caso anche questo elemento deve essere contestualizzato: nei primi secoli del Cristianesimo la bocca veniva intesa come la porta dello Spirito e i fedeli si scambiavano il bacio sulle labbra per “trasmettersi” lo Spirito. In questo gesto non c’era alcuna valenza sessuale. E’ infatti attraverso la bocca che gli uomini ricevono il nutrimento spirituale e il bacio d’amore li fa divenire “perfetti” trasmettendo loro il Verbo. Lo stesso Vangelo gnostico di Filippo deve essere interpretato nel contesto d’origine. Di matrice valentiniana, l’autore non si attiene alla dottrina androginica che prescrive l’assorbimento dell’elemento femminile in quello maschile, teorizzando invece un’unione gamica, ossia un matrimonio perfetto, riferendosi in questo senso alla “camera nuziale”, attraverso cui avviene la redenzione. Lo staccarsi di Eva, con la sua creazione, da Adamo, ha infatti scisso l’essenza dell’Anthropos nei due elementi maschile e femminile, provocandone la disgregazione, e dunque la morte. L’equilibrio è stato ristabilito dall’unione perfetta dell’Adamo celeste (Soter) con Sophia: “Per questo motivo è venuto il Cristo: per annullare la separazione che esisteva fin dalle origini e unire di nuovo i due, e per dare la vita a quelli che erano morti nella separazione e unirli”, cita il Vangelo di Filippo. In questo senso la Maddalena è la consorte del Cristo, secondo il parallelo tra Maddalena e Sophia. La Sophia che era sterile, dopo un ravvedimento si è unita con Soter rigenerando gli animi umani destinati al riscatto dalla materia: “La Sophia, che è chiamata sterile, è la madre degli angeli. La consorte di [Cristo è Maria] Maddalena. [Il Signore amava Maddalena] più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla [bocca]. Gli altri discepoli allora gli dissero: - Perché ami lei più di tutti noi? – il Salvatore rispose e disse loro: - Perché non amo voi tutti come lei?”. Proprio l’unione perfetta dei due eoni Sophia e Soter è il motivo del maggior affetto nutrito da Cristo per la Maddalena.

La valenza femminile del Graal
Nella leggenda del Graal non si può però trascurare l’elemento femminile né la valenza sessuale indicata dai simbolismi della lancia e della coppa stessa. La lancia che sanguina rappresenta l’asse del mondo, come vedremo più avanti, ma anche il principio maschile, mentre la coppa rappresenta ovviamente l’elemento femminile che riceve. Come teorizzato da Jesse Weston sarebbe l’unione di questi due principi a ridare al regno del re Pescatore – che è appunto malato – la fecondità e la ricchezza di un tempo.
Come recipiente che dispensa cibo – il Sangue di Cristo – il Graal è stato però interpretato dall’esoterismo classico, come l’utero della Dea Madre, intesa nella sua versione cristiana come la Vergine Maria.
Si badi bene: non la Maddalena.
Il Graal inteso come coppa-utero dà la vita a tutte le creature a patto di essere fecondata: da chi? Dallo Spirito Santo. Il reame del Graal è infatti sterile. Con ciò si può intendere nella sua accezione cristiana l’umanità corrotta dal peccato. Si attende un giovane cavaliere per ridare la fecondità perduta, per rigenerare il reame, per sostituire il vecchio re Pescatore che non è più in grado di garantire fertilità e ricchezza. Il cavaliere eletto è il Messia della tradizione ebraica. E’ il Cristo il cui sangue è stato accolto dalla Dea Madre fecondata dallo Spirito, poi versato in croce come sacrificio per i peccati dell’Uomo e raccolto nella coppa da Giuseppe d’Arimatea dopo la ferita nel costato.
Si noti la circolarità della genesi del simbolo.
L’idea di una progenie fisica di Gesù e della Maddalena non sarebbe altro che una corruzione posteriore di questa interpretazione.
Il Graal, inoltre, è sempre portato di una donna. Ma la portatrice del Graal è spesso descritta come una creatura androgina, come nel racconto di Peredur.
La Quete del Graal è costellata di elementi femminili: essi sostengono il peregrinare iniziatico dell’eroe. Lo studioso Jean Markale sostiene che essa sia “l’immagine della Fata arcaica, o della Dea Madre che procurava ai viaggiatori bevande inebrianti per confrontarli quando si smarrivano nelle terre in capo al mondo, ai limiti di quell’Altro Mondo che, nella tradizione celtica, non è mai in basso o in alto, ma accanto”. Inoltre “sempre grazie a un aspetto di questa Femminilità magica e quasi divina, l’eroe trova alla fine la strada che porta al castello del Graal”. La Cerca è infatti costellata in quasi tutte le sue tappe da donne che rappresentano immagini diverse dello stesso Eterno Femminino.
Non si pensi sia però un’esclusiva dei trovadori in quanto già nell’Epopea di Gilgames troviamo il racconto del peregrinare dell’eroe costellato da figura femminili, Dee e donne umane che aiutano Gilgames nel suo viaggio verso la conquista del segreto dell’immortalità che si rivelerà essere una pianta acquatica. Distrutto dalla morte del compagno di scorribande Enkidu, Gilgames realizza con disperazione di essere mortale e intraprende un lungo viaggio che lo porterà nel Giardino degli Dèi al cospetto di Utnapistim, il Noè babilonese. Egli è infatti l’unico umano a cui gli Dei abbiano rivelato il segreto dell’immortalità che, a sorpresa, decide di condividere con Gilgames.
Nel racconto babilonese assistiamo per la prima volta alla genesi dell’eroe con tutte le prove che la sua iniziazione comporta. Tra esse anche lo scontro con il suo doppio – Enkidu – che ne diviene una sorta di fratello minore e di compagno, la battaglia contro mostri e, infine, l’ultima prova, la ricerca dell’immortalità.
Da notare come a indicare la strada a Gilgames una volta arrivato al Giardino degli Dèi sia Siduri, la “donna della vigna, colei che fa il vino”. Ella vive nel giardino degli Dèi con la coppa d’oro e i tini d’oro “che gli dèi le diedero”: è l’anticipazione femminile del coppiere divino, del Ganimede greco o di Ebe. La coppa riempita della bevanda immortale, sia essa vino o sangue viene custodita da un uomo o da una donna. E’ il coppiere a permettere che la divinità si rigeneri.
Perché?
Forse che gli Dèi abbiano bisogno di qualcosa di “umano” per mantenere la loro immortalità? Questo elemento potrebbe avere qualcosa a che fare con il sangue dell’uomo, con il suo DNA? E’ il coppiere stesso a fornire il “cibo” o “bevanda” dell’immortalità al Dio?
E’ questo il Graal tanto cercato?
E’ forse un segreto che si cela così semplicemente dentro di noi?
In questa direzione sembrerebbe andare l’ufologia contemporanea aperta ad ammettere un intervento di ibridazione esterno nella creazione dell’uomo o più in generale il bisogno di creature ultraterrene o infraterrene – provenienti dal Regno Sotterraneo di Agartha – del sangue umano per potersi rigenerare.
Questa è ovviamente un’interpretazione possibile del Graal. Una. Perché la Tradizione Primordiale ha seminato il nostro cammino verso la conoscenza di indizi ma non della chiave per accedervi. La chiave la dobbiamo trovare dentro di noi.
Forse in tutti i sensi.

La Verità della Queste
Se la Verità è una e coincide con Dio o l’Assoluto, il valore di ogni uomo consiste infatti nella sua ricerca personale, nel perseguimento in-finito della Verità. A ogni cuore, dunque, il suo Graal, a ogni “cavaliere” la sua Queste. Ma il cavaliere deve, una volta ammesso al Castello del Graal, “porre la questione”, necessaria per la restaurazione del regno: l’errore di Parsifal è infatti quello di non chiedere. La funzione della domanda è quella di stabilire un legame tra il mondo umano e quello Altro, divino, del castello del Graal. Non ponendo la domanda necessaria, Parsifal non stabilisce alcun legame e dovrà errare a lungo prima di farvi ritorno. Nel Parzifal di Wolfram von Eschenbach la domanda è unica, fondamentale e non riguarda il Graal: si tratta di chiedere al re di che cosa soffra. In realtà l’eroe pone la domanda quando ha imparato tutto ciò che deve sapere sul Graal, sul re Pescatore e il suo regno. Dopo aver a lungo peregrinato, dopo essersi smarrito e ritrovato, dopo aver sofferto, ma proprio attraverso le imprese e la sofferenza essere rinato. Soprattutto dopo aver trovato lungo la strada molte donne, riflessi dell’Eterno femminino, della Dea Madre cantata da Brown. Così anche il lettore, come il neofita, non deve mai smettere di porsi domande, di interrogarsi, di risalire alle fonti.
Il dubbio, per quanto doloroso, deve divenire universale, deve assurgere a metodo di comprensione filosofica per non rischiare di rimanere intrappolati in interpretazioni errate perché accolte con superficialità.
Non deve mai stupire l’ingenuità della domanda della Queste.
In realtà la risposta, come insegnava Socrate, il cavaliere la porta già con sé. L’iniziazione serve soltanto a permettere alla Verità di sorgere a piena coscienza.
La ricerca del Graal non è altro che una lenta ascensione verso l’illuminazione: “Colui che possiede la conoscenza della verità è un uomo libero” ricorda il Vangelo di Filippo.

Simbolismo della coppa, cuore, libro.
Veniamo ora al simbolismo connesso al Graal.
Il Graal è nell’accezione più comune della tradizione letteraria un vaso, una coppa, da qui la valenza femminile degradata poi in utero. Ma il Graal è al contempo descritto dalla Tradizione Primordiale come un libro e una pietra. Esso ha dunque tre significati, ma l’uno non esclude l’altro, anzi, si compenetrano, affiancandosi al simboli del fiore sacro e della lancia.

Il Graal come vaso: Grasale
Il Graal è un Grasale, un vaso. In questo senso è stato interpretato nell’iconografia e nella letteratura prima cortese e poi sacra come il ricettacolo del sangue di Cristo. E’ il recipiente che raccoglie il vino o sangue di Cristo e che nelle tradizioni pagane precedenti conteneva la bevanda sacra agli dèi: il Soma, l’Haoma, l’Amrita, Fuoco Stellare, l’Ambrosia etc.
Sconcertante il parallelo tra l’Haoma avestico e il sacrifico di Cristo. L’Haoma è una pianta sacra da cui si estrae una bevanda rituale ma il termine indica anche la divinità contenuta nella pianta. Il rito dell’Haoma prevede il sacrificio cruento, ovvero l’uccisione rituale, della divinità contenuta nella pianta attraverso la sua spremitura. Questo rituale produce la bevanda sacra che viene offerta ad altre divinità e assunta dai celebranti per raggiungere l’immortalità. In questo senso il succo della pianta rappresenta il sangue della divinità in essa contenuta. Con il sacrificio rituale il dio Haoma muore e offre il suo succo, ovvero il suo sangue, agli officianti del rituale. E’ la prefigurazione del rito della Messa cristiana.
In questo senso è interessante la corrispondenza con il Cuore che ricorre nell’iconografia cristiana: il Cuore sacro di Cristo che appare in numerose raffigurazioni. Ad esso i fedeli rendono un culto particolare intendendo onorare l’Amore del Messia per gli uomini - di cui il Cuore è ovvio simbolo – e l’organo in quanto tale che lo rende umano ma che lo connette intimamente con il Dio Padre. Nell’Antico Testamento, infatti, sentimenti come amore, paura, coraggio, ira, odio sono attribuiti all’organo cardiaco. In senso lato essi rappresentano le qualità che rendono umana la persona e il cuore raffigura in tal modo la persona stessa e persino l’anima. Cuore e anima sono infatti interscambiabili. Il cuore è infatti il centro dell’attività spirituale, è sede della vita e dei sentimenti che contraddistinguono l’uomo: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”, cita il Vangelo di Matteo. Esso è anche sede della coscienza, il centro del controllo delle emozioni e quindi il motore della vita morale.
Se il termine “anima” (“ruach”, spirito, o “nephesh”, anima) viene attribuito anche agli animali (“Poiché la vita della carne è nel sangue” Levitino 17: 11), il “cuore” è relativo soltanto agli uomini. Per questo però il cuore, dopo la Caduta, risulta corrotto e portatore di malvagità: è corrotto dal peccato e va per questo rigenerato, rinnovato. Si noti il significato alchemico del bisogno di rigenerazione del cuore. La trasmutazione si compie soltanto attraverso la purificazione, ma essa necessita di passare per la nigredo, ovvero della prima tappa dell’opera alchemica: la Passione e la morte a cui segue necessariamente la resurrezione.
La vita, la passione, il sacrifico del sangue e la resurrezione del Cristo rappresentano in questo modo tappe reali del cammino dell’iniziato.
In Ezechiele troviamo scritto: “"Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne […] Io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro di loro un nuovo spirito, toglierò dal loro corpo il cuore di pietra, e metterò in loro un cuore di carne". Quando lo Spirito Santo compie una rigenerazione è proprio il cuore a esprimere il cambiamento di stato con la confessione di fede in Cristo perché è il cuore rappresenta l’uomo interiore, l’anima dell’uomo da cui necessariamente deve partire il processo di salvezza, come spiegano gli Atti degli Apostoli: “C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo”.

La coppa come equivalente simbolico del Cuore di Cristo
La tradizione cristiana ci tramanda quindi una duplice interpretazione: carnale e metaforica, di come andrebbe forse interpretato il Graal: coppa come doppio materiale del simbolo e sostituto simbolico del Cuore di Cristo, con l’accezione ermetica che esso reca necessariamente con sé.
Vediamo come.
Nei geroglifici egizi, infatti, il simbolo che indica il cuore è raffigurato proprio come un “vaso”. Il cuore dell’uomo non è infatti il vaso in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue?
Il Graal è infatti la coppa che contiene il sangue di Cristo e lo contiene due volte: dapprima servì all’Ultima Cena, poi esso venne raccolto da Giuseppe d’Arimatea dalla ferita aperta sul costato. In questo senso la coppa si sostituisce al Cuore di Cristo come ricettacolo del suo sangue, ne prende il suo posto e come ci spiega Guénon, ne diviene il suo equivalente simbolico. D’altronde la coppa svolge al pari del cuore stesso un ruolo assai importante in molte tradizioni antiche.
Come coppa è da connettere simbolicamente – come abbiamo visto - al vaso sacro che in Oriente contiene il Soma vedico o l’Haoma mazdeo, prefigurazione dell’eucarestia cristiana. Il contenuto rimanda al segreto dell’immortalità: è una bevanda, sia essa il succo di una pianta o un vino. In entrambi i casi prefigurano il sangue.
Come vaso si collega invece alchemicamente all’athanor all’interno del quale l’alchimista distilla l’elisir di lunga vita – o la pietra filosofale. Anche in questo caso il segreto dell’immortalità, il Graal alchemico, è da intendersi o in forma di bevanda, l’elisir, o di pietra.
Schematicamente come coppa viene rappresentato da un triangolo con la punta capovolta diretta verso il basso. In tal senso rappresenta anche il cuore.

Il Graal come pietra
Questa coppa sarebbe stata intagliata dagli angeli in uno smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero al momento della sua Caduta. Tale smeraldo richiama in modo sorprendente l’urna, la perla frontale che, nell’iconografia indù, occupa spesso il posto del terzo occhio di Shiva rappresentando anche il senso dell’eternità.
Nella tradizione cristiana il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso Terrestre ma in seguito alla sua caduta Adamo lo perse non potendolo portare con sé al di fuori dell’Eden. Questo perché il Graal dimora al Centro del Mondo e l’uomo divenuto peccatore non può strapparlo dal Centro. L’uomo, infatti, allontanato dal suo centro originale, il Centro del Mondo identificato nel Paradiso biblico, per sua propria colpa, decade nella sfera temporale. In questo modo non può più contemplare le cose sotto l’aspetto dell’eternità.
Il centro è infatti l’origine, il punto di partenza di tutte le cose: da esso sono prodotte per irradiazione tutte le cose. Il centro è il punto di partenza ma al contempo il punto di arrivo: tutto è derivato dal centro e tutto deve alla fine ritornarvi, un po’ come nella teoria di Origene e Gregorio di Nissa, l’apocatastasi, secondo la quale alla fine dei tempi tutto il creato tornerà in seno a Dio, ergo anche il Diavolo. Nello stoicismo l’apocatastasi simboleggiava il ritorno allo stato originario, il ristabilimento del cosmo, alludendo anche all’Eterno Ritorno. Con i Padri della Chiesa e sotto l’influsso neoplatonico si intese invece alludere al ritorno del creato all’Uno originario e indifferenziato. Secondo Origene alla fine dei tempi avverrà la redenzione universale di tutte le creature che saranno reintegrate nel divino, compresi Satana e la Morte. In tal senso le pene infernali avrebbero solo un senso transitorio, e purificatorio per quanto lunghe. Il disegno finale di Dio non può non comprendere la salvezza del creato. Il disegno salvifico di Dio non può compiersi se anche una sola creatura non può farvi parte. Secondo San Paolo, prima lettera ai Corinzi: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”, (1Corinzi 15, 28).

La pietra oracolare
Sarà il terzogenito di Adamo, Seth, a ottenere il permesso di rientrare nel paradiso terrestre per recuperare il Graal. In questo senso Seth è una prefigurazione del Redentore, in quanto annuncia una restaurazione parziale dell’ordine primordiale che era stato distrutto con la caduta di Adamo. La leggenda non aggiunge però da chi e dove fu conservato fino all’epoca di Gesù.
Dopo la morte di Cristo il Graal fu trasportato, secondo la leggenda, in Gran Bretagna da Giuseppe d’Arimatea e da Nicodemo. Da qua la saga dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Il Graal inteso come pietra recherebbe su di sé delle iscrizioni sacre. Esse sarebbero state tracciate dagli angeli o dal Cristo stesso. Queste iscrizioni di origine non umana appaiono anche in certe circostanze sul lapsit exillis di cui parla von Eschenbach. Per gli alchimisti era una delle designazioni della pietra filosofale. E’ una contrazione fonetica di lapis lapsus ex coelis, la pietra caduta dai cieli, quindi per sua stessa definizione una pietra “in esilio” dalla dimora celeste nella dimora terrestre.
Il lapsit exillis era una pietra parlante o pietra oracolare che invece di emettere suoni parlava attraverso i caratteri in superficie – come lo scudo della tartaruga nelle tradizioni estremo orientali. Come spiega Guénon, è in qualche modo il prototipo degli specchi magici, mentre altri studiosi l’hanno accostata alla Lia Fail, la pietra del destino e della consacrazione dei re d’Irlanda che si accompagna al Calderone del Dagda e alla lancia di Lug.
Nella tradizione biblica abbiamo la coppa di Giuseppe che in questa forma sarebbe una delle forme del Graal. Giuseppe parla infatti in Genesi 44, della sua coppa in cui beve e “per mezzo della quale trae i suoi presagi”.
Fu proprio un altro Giuseppe, D’Arimatea a diventare il custode del Graal. La pietra con la quale Giacobbe consacrò a Betel (Genesi 35, 7: “Qui egli costruì un altare e chiamò quel luogo El Betel”) sarebbe stata la stessa che seguiva gli ebrei nel deserto da cui usciva l’acqua che bevevano (Esodo 17, 6) e che secondo l’interpretazione di San Paolo sarebbe il Cristo stesso ( I Corinzi, X, 4: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il Cristo). Infatti il Graal è anche considerato il vaso dell’abbondanza. Da qua il collegamento con la bevanda dell’immortalità e l’elisir di vita…

Graal come libro: Gradale
Il Graal è un vaso ma è anche è un libro. In alcune versioni i due modi si trovano a coincidere perché il libro sarebbe l’iscrizione tracciata dal Cristo o da un angelo sulla Coppa – o pietra - stessa. In questo senso si riprende il mito della Tavola di Smeraldo, il testo sapienziale inciso da Ermete Trismegisto in una tavola di smeraldo. L’analogia è corroborata dal fatto che il Graal sarebbe stato intagliato dallo smeraldo che cadde dalla fronte di Lucifero.
Come libro concerne lo stato corrispondente all’effettivo possesso della tradizione a cui allude invece il simbolo del vaso. E’ la tradizione primordiale, lo stato edenico: è colui che è reintegrato nel paradiso in modo che la sua dimora è ormai al centro del mondo.
Da qua il fatto che, dato che nel mondo occidentale lo spirituale assume la forma specificamente religiosa, i veri custodi della terra santa dovevano essere cavalieri ma anche monaci, e questo furono infatti i Templari.

Il Calice è un fiore
Un altro simbolo connesso al Calice è quello floreale.
Il fiore evoca con la sua forma l’idea di ricettacolo. Si parla infatti del calice di un fiore. In Oriente il fiore simbolico per eccellenza è il loto, in Occidente è la rosa a svolgere tale ruolo.
Nell’abbazia di Fontevrault si vede un disegno dove la rosa è collocata ai piedi di una lancia lungo la quale piovono gocce di sangue. E’ la rappresentazione della rugiada celeste che ha una sua prefigurazione nella manna del deserto.
Abbiamo visto brevemente il simbolismo del centro. Certi fiori simbolici come la rosa o il loto in Oriente con il loro sbocciare rappresentano proprio lo sviluppo della manifestazione. Lo sbocciare è infatti un irradiamento intorno al Centro, da qui anche l’assimilazione con il simbolo della ruota. In questo senso nella tradizione indù il Mondo è rappresentato sotto forma di loto al centro del quale si eleva il Meru, la Montagna sacra che simboleggia il Polo.
Nella tradizione occidentale la rosa viene raffigurata con un numero variabile di petali. Mi limiterò a farvi notare a questo proposito che in genere i numeri cinque e sei si riferiscono al microcosmo e macrocosmo, mentre nel simbolismo alchimistico la rosa a cinque petali posta al centro della croce che rappresenta i 4 elementi, è il simbolo della quintessenza.

Dalla lancia di Lug alla lancia Longino
Tra i vari oggetti a cui il Graal viene associato c’è la lancia. Ovviamente si allude di primo acchito alla lancia del centurione Longino che trafisse il costato di Cristo. Dalla ferita a forma di organo femminile, sgorgarono acqua e sangue raccolti da Giuseppe d’Arimatea nella coppa della Cena.
Questa lancia o almeno il suo equivalente esisteva già come complementare della coppa nelle tradizioni anteriori al cristianesimo, come nella mitologia irlandese che ci parla della lancia di Lug come uno dei quattro tesori conservati insieme al calderone del Dagda, la pietra Lia Fail e la Spada di Luce. Alcune versioni del mito tramandano che la lancia di Lug gocciolasse sempre sangue.
Come simbolo la lancia quando è posta verticalmente allude all’Asse del Mondo che si identifica con il Raggio celeste. Da qua le assimilazioni del raggio solare ad armi come la lancia o la freccia. In alcune rappresentazioni gocce di sangue cadono dalla lancia nella coppa: le gocce di sangue sono la rappresentazione delle influenze emanate dal Purusha che evoca il simbolismo vedico del sacrifico del dio all’origine della manifestazione.
Vediamo invece la tradizione greca come assimila la lancia al simbolo floreale che come abbiamo visto evoca l’immagine della coppa. Nel mito greco di Adone – il cui nome significa Signore, quando l’eroe è colpito a morte dal grifo del cinghiale – che qua svolge la funzione della lancia – il suo sangue si sparge per terra e fa nascere un fiore. Fiore come ricettacolo del sangue del Signore che muore come in una forma di sacrificio cruento trafitto da un elemento animale che si sostituisce alla canonica “lancia” o “freccia”. Le gocce di sangue, così come la rugiada celeste dipinta nell’Abbazia di Fontevrault, sono ancora una volta immagini legate idea di rigenerazione e Resurrezione.